Ufficialmente inaugurata lo scorso 3 ottobre, la mostra fotografica “Inhabited Deserts” di John R. Pepper è visitabile a Todi, fino al prossimo 28 novembre 2020, nelle sale della Pinacoteca Civica e del Nido dell’Aquila ad ingresso libero.
La mostra “Inhabited Deserts”, curata da Kirill Petrin e Gianluca Marziani, è stata realizzata dal Comune di Todi al quale l’artista ha donato uno degli scatti in mostra, con il contributo della Fondazione Cultura e Arte e in collaborazione con l’Ambasciata degli Stati Uniti d’America in Italia.
Cinquantatré immagini in grande formato raccontano un viaggio lungo tre anni e 18 mila chilometri alla scoperta dei deserti più remoti ed inesplorati del mondo e un viaggio simbolico anche negli angoli misconosciuti del proprio animo, in una continua ricerca dell’immagine perfetta, ma non solo: ne parliamo con l’autore.
Mr. Pepper, a cosa si deve la scelta del deserto come scenografia e soggetto delle sue immagini? E quali nuovi significati ha assunto, ora, per lei, il deserto?
Dopo la mostra di street art photography del 2015 avevo bisogno di scrollarmi di dosso l’etichetta di fotografo di street art ed evolvere il mio lavoro. Volevo evitare il rischio di ripetermi, prendendomi qualche rischio, uscendo dalla mia “confort zone” e mettendomi alla prova; oltretutto stavo attraversando un periodo particolare nel quale sentivo forte l’esigenza di isolarmi e lavorare anche su di me. Così decisi, dopo aver dedicato una mostra all’acqua, di incentrare il mio lavoro sul deserto intraprendendo, in modo del tutto spontaneo, questo difficile viaggio nei luoghi più reconditi del globo e della mia interiorità.
Nel deserto si perde il senso dello spazio e mancano i punti di riferimento, per l’uomo non resta quindi che centrare l’attenzione su di sé e guardarsi dentro, senza sovrastrutture e senza riparo ci si mette a nudo, si arriva all’essenziale, si scoprono aspetti sconosciuti della propria personalità e ci si confronta con noi stessi senza compromessi. Ciò può anche essere molto destabilizzante, anche per le guide più esperte e per chi ha scelto il deserto come proprio luogo di elezione.
Sono quindi partito per questa esperienza alla ricerca di immagini, io dico sempre che è la foto che cerca me e non viceversa, alla scoperta di un luogo apparentemente sempre uguale a sé stesso ma, al contrario, in continuo mutamento, un po’ come l’animo umano; sono tornato con un bagaglio fortissimo di esperienze umane e di ricerca introspettiva. Nel deserto ho scoperto il silenzio esterno e interiore, ho constatato quanto siano superflui tutti gli oggetti che possediamo ed ho scoperto anche aspetti di me stesso che non conoscevo.
Lei predilige per i suoi scatti l’uso del bianco e nero: a cosa si deve questa scelta stilistica?
Io provengo dalla scuola di Ugo Mulas e Cartier Bresson, tra gli altri, ed ho sempre lavorato con il bianco e nero, ritengo che in essi ci sia più colore che in tutti gli altri. Utilizzo la mia Leica M6 con obbiettivo da 35mm come un pittore usa il suo pennello, disegno con la luce impressionando la pellicola senza artifici, senza ritocchi, lasciando allo scatto originale la potenza dell’immagine e del messaggio ad essa collegato. Trovo che il bianco e nero sia sensuale, bello e lasci più spazio allo spettatore, alla sua fantasia ed alla sua immaginazione; le mie fotografie non hanno titoli, credo che i titoli siano riduttivi, di fronte alle mie opere la libertà dello spettatore è totale, ognuno può interpretare le forme nel modo più libero e personale.
In effetti ho percepito nelle sue opere diversi livelli di comunicazione, dalla pura analisi delle forme a messaggi più profondi e simbolici.
Proprio così, questa è la chiave. Il deserto mi ha offerto immagini particolari, alcune riconducibili ad oggetti, animali, forme umane, ma non è tutto qui. Il deserto apparentemente silenzioso urla la sua antichissima storia, la storia degli uomini che lo hanno abitato e dei conflitti che lo hanno attraversato, il luogo apparentemente statico è fortemente dinamico e svela i suoi segreti a chi lo sa ascoltare.
Il concetto di pace è uno dei cardini sui quali è stato incentrato il toccante evento di apertura della mostra, anche grazie ai prestigiosi ospiti che sono intervenuti, continuerà la sua attività in questo senso?
Dal punto di vista artistico il progetto “Inhabited Deserts” vede la mostra come suo capitolo finale, ma non è certamente lo stesso per quanto riguarda l’attività a favore della comunicazione e creazione di presupposti per una pace duratura. Tutta l’energia che io e Giancarlo Esposito abbiamo profuso in questo periodo sicuramente non si esaurirà qui, anche perché il deserto è entrato nel mio sangue, e sono destinato a subire il suo fascino ed il suo richiamo rimanendo legato a lui per tutto il resto della mia vita.
Benedetta Tintillini